Proseguiamo la pubblicazione di post più o meno recenti, reperiti in rete, riguardanti il dibattito e la continua contrapposizione tra il modello di donna filiforme e quasi androgina e quella formosa.
Gli spunti di riflessione sono tanti. Aspettiamo anche i vostri commenti.
Quando le curve non sono pericolose
Di Luigi De Marchi
lunedì, novembre 19, 2007
Sul “Venerdì” di “Repubblica” Laura Laurenzi pubblica un servizio di copertina intitolato “Bell’Italia” che mi sembra segnare un’importante svolta nel costume e nella cultura del nostro Paese. L’articolo sottolinea, finalmente in chiave empatica, che le italiane più celebrate e ammirate per la loro bellezza, nell’ultimo secolo, sono state tutte donne formose e curvacee, con buona pace dei cantori della donna anoressica che ci affliggono ormai da decenni.
L’articolo è tanto più significativo, a mio parere, in quanto è scritto da una delle più acute e profonde osservatrici del costume italiano, si contrappone senza polemiche ma con la forza dei fatti ai modelli prevalenti ed è apparso su un giornale dell’area di sinistra, di solito incline a sostenere, nel campo estetico come in tanti altri, le posizioni degli artisti e degl’intellettuali à la page.
Laurenzi prende spunto dal recente e documentatissimo libro di un professore inglese di Storia dei Mass Media, Stephen Gundle, pubblicato dall’editore Laterza, intitolato “Figure del desiderio” e dedicato, come precisa il sottotitolo, alla “Storia della bellezza femminile italiana”. Nelle 475 pagine della sua ricerca, Gundle sostiene che le belle italiane dello spettacolo sono riuscite a sbaragliare le concorrenti degli altri paesi dell’Occidente e ad incarnare (è il caso di dirlo) “una femminilità mediterranea, splendidamente terrena” che ha letteralmente scardinato il pallido stereotipo della bellezza classica, perfetta e perciò stesso esangue e disanimata, diffondendo in tutto il mondo il mito della sensualità latina.
Secondo Gundle, ferma restando naturalmente la primogenitura delle bellezze rinascimentali di Tiziano o Veronese, la capostipite della dinastia delle nostre stelle “supernove” dello spettacolo è stata indubbiamente Lina Cavalieri, ammirata e adorata in tutto il mondo tra la fine dell’800 e gl’inizi del ‘900 e definita da d’Annunzio “la più conturbante espressione di Venere sulla Terra”. Dopo la parentesi fascista in cui, secondo Gundle, la sensualità femminile riuscì, solamente con Alida Valli e Clara Calamai, a sormontare il modello di bellezza subdolamente sessuofobico della massaia rurale o della sportiva viriloide promosso dal fascismo (in una paradossale sintonia col comunismo spiegabile solo con le mie analisi psicopolitiche), nel dopoguerra esplosero le “maggiorate”: da Gina Lollobrigida a Sophia Loren a Claudia Cardinale a Laura Antonelli a Silvana Mangano. Quest’ultima, però, mi sembra quasi simboleggiare drammaticamente, nella sua stessa persona, la progressiva vittoria del modello sessuofobico e ossuto di bellezza femminile prevalso negli ultimi trent’anni. Nata come opulenta e curvacea mondina in “Riso Amaro” di Giuseppe De Santis, la povera Mangano venne gradualmente costretta e ristretta nel personaggio raffinato, anemico, rapace e funereo dei suoi ultimi film: da “Morte a Venezia” a “Ritratto di famiglia in un interno” a “Oci Ciorni”.
Quello che mi sembra mancare, nel bel libro di Gundle, è una ricerca sulle radici profonde di questa strana involuzione dei modelli della bellezza femminile. Per parte mia, in varie altre occasioni ho denunciato le responsabilità di molti stilisti in questo campo e ho ricordato il monito sferzante rivolto alle donne dall’indimenticabile Brigitte Bardot già quarant’anni fa: “Donne! Diffidate degli stilisti. Detestano il corpo femminile e vogliono costringerlo a somigliare a quello dei giovani maschi da loro prediletti”. E da quella sopraffazione è nato un modello di cosiddetta bellezza che ha inferiorizzato la donna gettandola in una guerra perpetua e perpetuamente perduta col suo stesso corpo e che ha prodotto milioni ragazze infelicitate e talvolta uccise dall’anoressia.
Leggendo l’inchiesta del “Venerdì” di “Repubblica” ho avuto tuttavia il piacere di scoprire che anche un famoso chirurgo estetico, Roy de Vita, la pensa come me e dichiara senza mezzi termini che “negli anni ’80 sono stati gli stilisti ad imporre il nuovo modello femminile”. Ma de Vita aggiunge anche che, negli ultimi 10-15 anni, una percentuale sempre maggiore di donne si ribella alla mascolinizzazione del proprio corpo e aspira ad avere un seno sontuoso.
Comunque, io penso che la vera sfida del nostro tempo sia, per le donne, quella di liberarsi dai modelli a loro imposti via via dall’industria della bellezza e di ritrovare l’orgoglio della loro carnalità e delle loro curve naturali, che le Veneri d’ogni epoca (dal paleolitico all’altro ieri) hanno celebrato o addirittura divinizzato.
Forse, uno degli strumenti più micidiali per inferiorizzare la bellezza femminile naturale è stato quello di presentare la donna procace come un tantino sciocca e sempliciotta e di contrabbandare tra la “bella gente” il binomio “tonda-tonta”. Fortunatamente, proprio pochi giorni il “Corriere della Sera” ha segnalato una estesa ricerca condotta su 16 mila donne e ragazze da due squadre di ricercatori delle Università di Pittsburgh e Santa Barbara (California), che ha smontato anche questo pericoloso pregiudizio. Al contrario la ricerca, incrociando i dati anatomici con i risultati dei test d’intelligenza nelle donne investigate, ha scoperto che quelle dotate d’un bacino più tipicamente femminile e curvaceo (vita stretta e fianchi larghi) non solo avevano ottenuto un punteggio nettamente più alto nei test d’intelligenza ma avevano anche trasmesso ai figli questo maggior quoziente intellettuale. Capito, cari stilisti e care anoressiche? State inseguendo, come dicevano i predicatori del ‘600, false immagini di bene…
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Luigi De Marchi: Psicologo, politologo e saggista, è stato protagonista di varie battaglie per i diritti civili. Pioniere della ricerca psico-culturale europea e presidente della Società di Psicologia Politica. Le sue ricerche sull’angoscia sono approdate a una nuova teoria della cultura e della nevrosi.